2011 – in progress • Gelatin silver bromide print on baryta paper Ilford Warmtone
Écoute, écoute mieux, derrière tous les murs, à travers le vacarme croissant qui est en toi et hors de toi, écoute... Et puise dans l'eau invisible où peut-être boivent encore d'invisibles bêtes après d'autres, depuis toujours, qui sont venues, silencieuses, blanches, lentes, au couchant (ayant été dès l'aube obéissantes au soleil sur le grand pré), laper cette lumière qui ne s'éteint pas la nuit mais seulement se couvre d'ombre, à peine, comme se couvrent les troupeaux d'un manteau de sommeil. Philippe Jaccottet
Dialogo epistolare con Salvatore Ligios, fotografo e docente di Fotografia all’Accademia delle Belle Arti di Sassari
SALVATORE LIGIOS – La prima impressione è una visione crepuscolare.
FAUSTO URRU – Oltre al dato meteorologico in sé (che può variare e non è poi così importante), la luce rasente che talvolta si ritrova in questo progetto aiuta a scontornare un dettaglio – il fatidico punctum di Roland Barthes – che altrimenti, nella pienezza del giorno, si confonderebbe con il resto che lo attornia e quindi prevarica. Talvolta è proprio la luce ad essere puntcum.
SL. Ti sei ispirato a qualcosa in particolare?
FU. L’ispirazione non l’ho cercata: si è sedimentata col tempo (e le letture) per schiudersi una volta fuori, percorrendo il dorso del paesaggio. Avevo già da molti anni una mia atmosfera generale di luci rasenti, ombre e penombre, di chiaroscuri e di controluce che hanno scoperto nuovi orizzonti in Sardegna.
SL. Prova a raccontarmi che esperienza hai fatto.
FU. In limine parte da un punto biografico ben preciso, di cui parlo in questa sede perché ha avuto (ed ha tuttora) un impatto notevole sul mio lavoro. Come ben sai, tra l’ottobre del 2011 e il luglio del 2012 mia sorella è stata ostaggio di un gruppo di terroristi nel Nord del Mali. Il giorno dopo che ho appreso la notizia, mi hanno chiamato dal Nord della Francia dove ero risultato vincitore di una Residenza di artista di quattro mesi e mezzo nelle Fiandre francesi, a partire dal gennaio seguente. Quando sono arrivato lassù, in quella pianura quasi interamente puntellata di casette e fabbriche, ho provato a cercare un rifugio (anche se fotografico) nel paesaggio. Ma col passare delle settimane mi sono reso conto che non riuscivo più a cogliere quel territorio. I miei occhi parevano sciogliere le sue casette di mattoncini rossi, sembravano fondere le ciminiere delle fabbriche, divellere uno ad uno i pavets delle strade e spegnere ogni luce, sedare ogni animo. Il fuori, in quel momento, restava fuori dalla mia portata. Un passo di Andrea Zanzotto, tratto da Elegia e altri versi che stavo leggendo in quel periodo, è più che mai in sintonia con la rottura di quel periodo: Finito il desiderio, / chiuso il suono / dei fiumi e della vita, / sopita la fede oscura / ch’ebbi in tutta l’apertura del mondo / in tutti i nodi avventurosi / d’alberi crete e venti. Durante questa lunga parentesi durata sino al settembre del 2012, nonostante tutti i tentativi, non riuscivo più a fotografare, ad esprimermi attraverso la fotografia. Riuscivo a trovare un po’ di pace solamente ascoltando musica (classica ed elettronica ma sempre senza testi), leggendo o scrivendo poesie. Poi, a inizio settembre, quando mi hai proposto di lavorare sul paesaggio sardo mi è sembrata un’occasione ideale e propizia per riprendere il discorso che avevo abbandonato. Forse anche per questi motivi le fotografie potrebbero sembrare scure. Ma a guardarle attentamente, c’è sempre una frattura di luce, una resistenza luminosa nella penombra. Come scrivevo negli appunti che ti ho inviato, si tratta di una “luce-souvenir o luce-premonitrice”, di uno spasmo o di un colpo di reni.
SL. Partire , ritornare, ripartire.
FU. Da quando ho lasciato la Sardegna per andare a studiare a Bologna e poi all’estero, dieci anni fa, sapevo di intraprendere un viaggio di sola andata, anche se ritorno spesso. In questo frangente, ritornarci per confrontarmi con il paesaggio sardo è stato molto stimolante e curioso. Ci sono posti che ho sempre portato dentro, panorami interiori che non smettono mai di costruirmi. Percorrere oggi il paesaggio sardo – il paesaggio della mia infanzia sino ai diciott’anni –, è stato un po’ come percorrere il passato che ancora vive in questo presente ed il futuro che già s’insinua. Come scrivevo negli appunti: Il paesaggio è a me talmente addentro che è difficile che il fascio di luce diurna lo riveli nella sua pienezza. In limine si vuole una sorta di simbiosi, di sintonia, di identità quasi, fra me ed il tempo, sia esso luce od ombra, sia esso tripartito od uno e trino, e fra me ed il paesaggio. Non si tratta di un’identità di umori variabili. Piuttosto di un’identità tout court. La curvatura dell’occhio, quasi senza volerlo, sembra piegare alberi e pali, vallate e orizzonti sino a farli coincidere al loro riflesso acutizzato nello (e dallo) sguardo. Guardare è sprofondare dentro se stessi. Ritrovarsi non fosse che in un bagliore breve è già un buon segno, una prima timida speranza. Ci sono talmente tante narrazioni sul paesaggio della Sardegna, talmente tante immagini pittoresche viventi in ognuno di noi che sin da subito ho escluso la bellezza “comune” – romantica, per intenderci – quale cometa per il mio percorso. Così mi sono concentrato sulle zone di transizione tra la fine di un centro abitato e l’inizio della natura che crediamo più incontaminata. Questo mi ha permesso di esplorare in lungo ed in largo una parte della Sardegna poco frequentata (e poco fotografata, credo). Allo stato attuale, In limine non è che il primo capitolo della lunga serie che ho in mente. Mi piacerebbe infatti continuare l’esplorazione per un periodo più lungo, spalmato su più anni. Solo così riuscirei ad avere la distanza e la lucidità necessarie per interrogare in profondità il paesaggio.
SL. Convivere tra esplorazione e nostalgia.
FU. Posso dire che durante le settimane che ho passato a girovagare per la Sardegna ho cercato di esplorare la nostalgia. Una nostalgia che non affonda solamente le radici in un passato remoto (e forse idealizzato), ma lo scavalca, per situarsi in un luogo atemporale ancorché costituito di elementi reali. Durante l’esplorazione, la nostalgia si tingeva di amarezza per ciò che non è mai esistito davvero, e che invece avrebbe dovuto.
SL. Che rapporto hai con la poesia? Ci sono autori che prediligi? Cos’ami leggere?
FU. Penso che la fotografia sia una particolare forma di poesia. C’è un idem sentire alle radici di entrambe, la stessa pervicace volontà di interrogare in profondità noi stessi e il mondo che ci circonda. Gaston Bachelard, nel suo saggio La poetica dello spazio, illustra lo stato dell’essere in cui ci si trova quando ci si immedesima a tal punto con la poesia che si sta leggendo (e con le immagini evocate) da parlare noi stessi quel poema, dal sentirlo nostro e così approfondire la nostra esistenza. Non si tratta solamente di un’attitudine psicologica, di un’affinità di sentimenti o di un ricordo che riaffiora – nel qual caso ci troveremmo di fronte ad una “risonanza” (résonance) –. La ricezione deve essere più profonda, creare uno stato dell’essere. L’espressione utilizzata è retentissement : Cette image que la lecture du poème nous offre, la voici qui devient vraiment nôtre. Elle prend racine en nous-mêmes. Nous l’avons reçue, mais nous naissons à l’impression que nous aurions pu la créer, que nous aurions dû la créer. Elle devient un être nouveau de notre language, elle nous exprime en nous faisant ce qu’elle exprime, autrement dit elle est à la fois un devenir d’expression et un devenir de notre être. Ici, l’expression crée de l’être. Le relazioni con la fotografia (una fotografia puramente soggettiva) mi sembrano edificanti. Con la differenza sostanziale, ma non invalidante, che il fotografo si cimenta con altre scritture più arcane, che ancora oggi legge poeti che all’ombra dei secoli decantano i propri versi in lingue antichissime. Rispetto al progetto in questione è stata illuminante la lettura di due poeti in particolare: Andrea Zanzotto con le sue prime raccolte (Dietro il paesaggio, Elegia ed altri versi e Vocativo), e soprattutto Philippe Jaccottet con À la lumière d’hiver, Chaiers de verdure e l’immenso Paysages avec figures absentes. Entrambi, in modi diversi, hanno saputo riconoscere il canto del paesaggio per poi rendercene partecipi.
SL. Quali sono i passaggi fotografici che ti hanno formato?
FU. Anzitutto l’École Supérieure des Arts de l’Image “le 75”, a Bruxelles, e i consigli dei miei professori, segnatamente Hugues de Wurstemberger e Eric Dessert. Di quest’ultimo, poi, sono diventato assistente a Lyon prima di trasferirmi a Parigi. Questo è assodato. Il resto, poi, è ancora in corso.
SL. Quali autori, se ce ne sono, hai sentito vicini?
FU. Josef Koudelka sempre (e da sempre). In questo ambito, quello del paesaggio, ho apprezzato molto Far cry di Paulo Nozolino, Wind di Jungjin Lee, L’autre Chine di Éric Dessert, Paysans e Pauline et Pierre di Hugues de Wurstemberger, Rainchild di Machiel Botman per citarne alcuni.
SL. Qual è l’attrazione in limine?
FU. È l’attrazione per il torbido, il contaminato, l’incrinatura. La permeabilità di una frontiera aperta, di un limes privo di muri e fossati arricchiscono il discorso paesaggistico di variabili non previste ed al tempo stesso accelerano drammaticamente il tempo, l’involuzione. L’estensione a macchia d’olio dei centri abitati è sotto gli occhi di tutti. Durante le mie peregrinazioni in limine mi sembrava di vivere una doppia temporalità, una strana compresenza. Come se d’un tratto mi trovassi a vivere gli ultimi momenti di un passato sul punto di essere inghiottito irrimediabilmente da fiotti di modernità liquida (sia colate di cemento che fuga nella smaterializzazione), ed allo stesso tempo percepissi le avvisaglie di quello che sarà. C’era sempre una doppia eco, un tacito grido di morte ed un vagito.
Estratto da
Fausto Urru
Paesaggi _ In limine, Soter editrice, 2013
a cura di Salvatore Ligios.